Claudia Promutico

L’applicabilità del concetto di “privata dimora” allo studio professionale.

dell’Avv. Claudia Promutico

Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza n.5797 del 2018 concerne la questione relativa alla definizione della nozione di “privata dimora” ai sensi dell’art. 614 c.p.
In particolare la sentenza citata analizza il caso di un soggetto condannato con sentenza del Tribunale di Roma, confermata dalla Corte d’Appello di Roma, alla pena di cinque mesi di reclusione (pena sospesa) per le ipotesi di reato di cui agli artt. 614 commi 1 e 2 c.p., 56 e 610 c.p. per essersi intrattenuto contro l’espressa volontà del titolare all’interno di uno studio legale e per aver compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere il medesimo titolare dello studio a ricevere e a sottoscrivere una lettera, minacciando di non allontanarsi dal suddetto studio, sino all’avvenuto adempimento delle richieste.
La Corte di Cassazione nonostante abbia annullato con rinvio la sentenza impugnata, stante l’intervenuta prescrizione dei reati, si è in ogni caso pronunciata sulla questione relativa alla possibilità di considerare lo studio legale rientrante nella nozione di “privata dimora”.
Il concetto di privata dimora, invero, è rilevante in relazione a numerose norme del codice penale quali l’art. 610 (violenza privata), 614 (violazione di domicilio), 615 bis (interferenze illecite nella vita privata), 624 bis (furto in abitazione).
Sui confini della nozione di “privata dimora” si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n.31345/2017 con la quale hanno individuato gli elementi necessari affinché un luogo possa considerarsi privata dimora. Nello specifico questi sono: l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata, in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne; la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona in modo tale che lo stesso sia caratterizzato da stabilità e non sia occasionale; la non accessibilità del luogo da parte di terzi senza il consenso del titolare.
L’intento perseguito dalle Sezioni Unite nella pronuncia succitata è stato quello di porre le basi per una definizione unitaria del concetto di privata dimora, posto che la giurisprudenza ha variamente interpretato lo stesso aderendo in alcune sentenze ad un’interpretazione estensiva e in altre ad un’interpretazione più restrittiva in relazione ai diversi reati di volta in volta considerati.
In particolare, in merito al delitto di violazione di domicilio, la giurisprudenza ha sostenuto che il concetto di privata dimora è più ampio di quello di abitazione e comprende ogni luogo che possa risultare funzionale all’esplicazione della vita privata dell’individuo compresa la vita politica, culturale e ricreativa. Pertanto, secondo tale interpretazione, il delitto di violazione di domicilio è configurabile anche nel caso in cui si tratti di luoghi aperti al pubblico, quali gli esercizi commerciali. Il descritto orientamento ha, infatti, valorizzato come criterio distintivo la possibilità di esercitare nei suddetti luoghi il c.d. ius excludendi.
In materia di intercettazioni ambientali si è invece registrato un orientamento più restrittivo volto a escludere dal concetto di privata dimora, i luoghi in cui il titolare possa vantare uno ius excludendi ma non anche un diritto alla riservatezza. Secondo tale tesi, invero, l’accessibilità al pubblico del luogo e la presenza occasionale o temporanea del titolare non consentono di ricomprendere il luogo di lavoro nel concetto di privata dimora.
Le Sezioni Unite hanno poi analizzato la possibilità di applicare ai luoghi di lavoro il concetto di privata dimora. Dopo aver qualificato il luogo di lavoro come un luogo nel quale il soggetto compie atti della vita privata, il Supremo Consesso ha in ogni caso ritenuto irrilevante tale circostanza, al fine di ricomprendere i predetti luoghi nella nozione di privata dimora. Ebbene, i luoghi di lavoro sono accessibili ad una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto, dunque, con riferimento agli stessi, non appare opportuno parlare di riservatezza o necessità di tutela della sfera privata dell’individuo.
Ne consegue che, secondo le Sezioni Unite, deve essere confermato l’orientamento più restrittivo che ricomprende nel concetto di privata dimora i luoghi di lavoro aventi caratteristiche proprie dell’abitazione.
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi. La conferma di tale assunto deriva dall’analisi dell’art. 52 comma 3 c.p., aggiunto dalla Legge 13 febbraio 2006, n.59, nel quale si afferma che la disposizione relativa alla legittima difesa si applica anche qualora il fatto si sia verificato all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Pertanto, se fosse stato pacifico ricomprendere i luoghi di lavoro nella nozione di privata dimora non vi sarebbe stata la necessità di aggiungere all’art. 52 c.p. il comma 3 al fine di estendere l’ambito di applicazione della norma de qua.
Con la sentenza n.5797 del 2018 la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sul concetto di privata dimora in relazione allo studio professionale conferendo allo stesso una connotazione di “privata dimora” stante la mancata apertura indiscriminata al pubblico dello stesso.
La recente sentenza sembra conferire una generale tutela allo studio professionale, nella specie uno studio legale che fungeva anche da ufficio amministrativo di un consorzio, nel quale “per definizione” è assente il carattere di apertura indiscriminata al pubblico.
Alla luce di quanto stabilito da tale sentenza sarà opportuno osservare le successive pronunce della Suprema Corte volte a sviluppare ulteriormente il principio sinteticamente enunciato dalla V Sezione.

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