Legittimo il licenziamento del dipendente per diffamazione a mezzo Facebook.

(Cass. Civ., Sez. Lavoro, Sent. n. 10280 del 27 aprile 2018)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018, ha sancito la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che su Facebook aveva usato frasi fortemente scurrili e lesive del buon nome dell’azienda, così confermando il principio, sempre più pacifico, in virtù del quale “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.

Andiamo però con ordine.

Con sentenza del 12.05.2016, la Corte di appello di Bologna respingeva il gravame proposto dalla lavoratrice avverso la decisione del Tribunale di Forlì, che aveva rigettato il ricorso proposto dalla predetta, volto all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatole per giusta causa dalla società datrice di lavoro al fine di ottenere la tutela denegatale in sede cautelare.

La Corte riteneva, infatti, la condotta tenuta dalla ricorrente ascrivibile, per le specifiche modalità indicate, al delitto di diffamazione, secondo il pacifico orientamento accolto dalla giurisprudenza, in quanto integrante un comportamento idoneo ad incrinare in maniera irrimediabile l’essenziale vincolo fiduciario che anima il rapporto di lavoro e deducibile, quindi, a giusta causa di licenziamento; si aggiunga, inoltre, che nel caso di specie, alle invettive rivolte nei confronti dell’azienda e dei suoi superiori, si andava ad aggiungere la prospettazione del ricorrere di malattie asintomatiche causate da diversità di veduta con il datore di lavoro, smentite, però, dalle testimonianze assunte nel corso dell’istruttoria.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per Cassazione da parte della lavoratrice licenziata che veniva però rigettato dalla Corte Suprema, con il principio di diritto sopra esposto.

La lavoratrice, innanzi la Suprema Corte, lamentava l’illegittimità del licenziamento intimatole, ponendo a fondamento delle proprie difese le seguenti argomentazioni: la mancata intenzionalità della condotta, il difetto di proporzionalità tra l’infrazione e la sanzione, nonché l’esistenza di un forte stress psicologico ricollegato al rapporto di lavoro con la società.

La Suprema Corte di Cassazione, confermando le statuizioni dei precedenti gradi di giudizio, ha respinto il ricorso della lavoratrice, precisando che al fine di integrare la giusta causa di licenziamento non è necessaria una condotta intenzionale o dolosa da parte del dipendente, essendo invece sufficiente un comportamento di natura colposa.

Ha, inoltre, ribadito il principio in virtù del quale, in caso di licenziamento per giusta causa, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che lega le parti, deve essere effettuata tenendo conto della natura e della qualità del singolo rapporto, del ruolo delle parti, del grado di affidabilità richiesto al dipendente, nonché della portata soggettiva del fatto contestato e delle concrete circostanze del suo verificarsi.

Secondo gli Ermellini, quindi, postare un commento offensivo su Facebook, integra gli estremi della diffamazione e quindi, nel caso di specie, “correttamente è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo”.

Avv. Raffaella Maddaloni

Avv. Domitilla Serra

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